'E guarattelle
MENOTTI BIANCHI
’E GUARATTELLE
Dramma Napoletano in un atto
preceduto da una lettera aperta a G. Verga
NAPOLI
Società Libraria Italiana Editrice
Via Roma 40
A GIOVANNI VERGA
Illustre Amico,
chi meglio di Lei potrebbe, con la sensitiva genialità che La anima, comprendere il mio sconforto? Chi meglio di Lei può penetrare e compatire l’artista innamorato della propria arte, e per essa tormentato incessantemente da disillusioni ed amarezze infinite? L’artista giovane, in Italia, è confinato in un oblio che forma la sua segreta e inestinguibile pena, in un abbandono che piega il suo legittimo orgoglio, e offusca le sue idealità, e infrange le sue speranze. La borghesia imperante, e l’imperialismo letterario, ànno quasi un disdegno per chi, acceso da una febbre d’ideal bellezza, esprime nello sforzo della forma, il ritmo del suo pensiero e l’armonia del suo sogno. E però l’anima giovane, che si lancia, con le energie proterve, desiosa di luce, verso i cieli della purezza eterna, non è compresa nel suo amore e nel suo dolore, e prima di poter attingere la notorietà che sarebbe suo legittimo diritto, deve fatalmente strugersi nella inane melanconia del silenzio che lo avvolge, e consumare in tal modo, nel segreto martirio dello spirito, il fiore più eletto delle intime ebrietà che lo accendevano e lo esaltavano indicibilmente.
Giosue Carducci, a proposito di Stefano Gobatti, il musicista che scontò la vittoria d’un attimo, con l’abbandono di tutta l’esistenza, cosi si espresse: « La guerra contro i giovani, nei territori almeno della politica e dell’arte è bandita da per tutto e sempre.
Se egli procede franco per la sua via, con quel passo rapido insieme e tranquillo che è il segno della robustezza e della forza, se egli guarda sicuro innanzi a sè con quell'occhio splendente di confidenza e di fede che è la divina bellezza della gioventù, se egli crede da vero all’arte e alla sua dignità, e non sparnazza a destra e a sinistra le mancie delle piccole viltà e delle grandi umiliazioni, oh, allora i dragoni che stanno a guardia dei pomi d’oro nell’orto delle Esperidi rizzano tutte le creste, e schizzando indignazione dagli occhi vomitano tutti i loro fuochi di pece greca contro di lui ».
Or tutto questo è triste, è assai triste, illustre Maestro ed amico. La giovinezza che nella età della grandezza classica, era sacra come una sublime emanazione della divinità, nel nostro secolo di borghese industrialismo è tenuta in un dispregio che è quasi simbolo di decadenza intellettuale. Io forse dico questo, facendo un poco il Gicero pro domo mea; ma creda pure, non è basso orgoglio o eccessiva fiducia in me, che mi anima, ma quel senso di spontaneo e sincero rammarico che vien dalla coscienza, equilibrata e serena, di uno sforzo non presentuoso compiuto con ogni ardore di entusiasmo, e con la più viva fede, con la più accesa costanza.
Nel solingo oblio nel quale dai più io sono stato fino ad oggi fatalmente profondato, a quando a quando m’è giunta, consolatrice e avvivatrice, una parola di bontà sincera e di incoraggiamento confortevole. Ed io custodisco, nel profondo dello spirito, una immutabile gratitudine per Lei, che à voluto onorarmi, da anni, della effusione della Sua bontà e della Sua comprensione Non fu Lei a scrivermi fin dal Giugno dell’ 84, quando ero appena sedicenne, che il mio Comparàtico! « ha pregi di naturalezza e una certa disinvoltura scenica che fanno bene sperare di un altro lavoro del giovane autore »? E nel ’902 per la Figlia della Madonna non si degnò Ella, di dirmi: « L’ò letto con piacere ed interesse e mi congratulo del notevole progresso che Ella dimostra di aver fatto con quest’atto, dall’ultimo suo lavoretto, Rosa Esposito, che fu pure premiato e meritatamente al concorso del Mattino. »?
Queste parole buone io chiudo nei segreto del mio cuore, e furono come la luce mite che rischiara l’ombra di una notte che sembra senza fine. E Luigi Capuano, la grande anima, cosi intima al Suo spirito, si è degnato d’ avere anche per me espressioni di cordiale bontà, scrivendomi per la mia Napoletana, « Mi rallegro con l’autore, particolarmente per l’appassionata creazione di Cannetella, figura indimenticabile, vera, proprio viva ».
Dai pochi grandi spiriti, m’è giunto sovente il messaggio che consola. Il mio teatro, che si sforza di trarre la significazione umana e spontanea, dall'anima immensa del popolo che palpita e vibra, è stato sovente ben giudicato, da elette intellettualità, con una degnazione che è il mio conforto ed il mio orgoglio.
Ma tutto ciò s’è fermato lì. Giudizii di simpatia espressi su giornali e riviste d’Italia, lettere di compiacimento; ma insieme con tutto ciò, la lotta bassa dei mediocri, 1’ostilità delle Compagnie dialettali.
Già da noi mancano le Compagnie dialettali atte ad interpretare un lavoro d’arte pura. Pare che si sia radicato nella moltitudine il concetto che il teatro dialettale napoletano, debba essere unicamente ristretto alle riduzioni di pochades francesi nel nostro popolare idioma, e nelle commedie grottesche, auspice la maschera di Pulcinella. Il lavoro d’arte, come esiste nei dialetti di altri popoli d’Italia, — primissimo il veneziano — pare ai più che debba essere un anacronismo, per il nostro popolo gaio, spensierato, eternamente ridente. Ma il nostro popolo vibra di sentimento e di passione; nel suo intimo palpitano sentimenti umani e sogni di poesia, e la sua vita multiforme, rappresentata sulle scene, rifulge d’ un interesse, intenso anche se non debba essere allegra ed atta a sollevare l’ilarità e il buon umore.
Così che, le nostre Compagnie dialettali si restringono intorno al vecchio repertorio brillante, e i nostri attori ci tengono a voler essere perenni creatori di riso. Solo pochi artisti, veramente sensitivi e profondi, noi contiamo, degni di penetrare il valore della vita, e di interpretare un lavoro d’arte vera; Adelina Magnetti, che di recente s’è rivelata artista magnifica, e il Galloro che à qualità rare di attore intenso e spontaneo e la Del Giudice, artista insuperabile.
Ma tre attori non possono testimoniare dell’esistenza di una Compagnia completa, e i miei lavori sono condannati al silenzio, dal quale escono solo a quando a quando, fuggevolmente, apparendo nella assai modesta veste dell’ opuscolo a stampa.
Eppure a 16 anni io avevo trovato molte Compagnie siciliane che rappresentarono il mio Comparatico, scene di costumi siciliani, e il piccolo e semplice lavoro in un atto (questo per la storia) ebbe ottimo successo, e fece il giro di molti teatri di molte città di Sicilia.
Achille Torelli per il mio Dovere diceva: « Date retta ad un uomo che vi stima e vi vuol bene: avete tutto per essere un vero autore drammatico, e se riuscirete a voler meno i contrasti, avrete al tutto conseguito il posto che vi spetta. » Il « posto che mi spetta! » Com’è melanconico tutto questo, non è vero, illustre Maestro ed amico? Anche Roberto Bracco à voluto graziosamente esprimermi la sua bontà gentile: « Ho veramente ammirate le vostre spiccate facoltà sceniche. In tutti e due i bozzetti avete preferito lo scorcio, che è anche per me una delle più interessanti manifestazioni dell’arte teatrale. Lo scorcio è diffìcile e pericoloso, ed io amo le difficoltà e i pericoli. Vi faccio, dunque, i miei complimenti, e vi auguro il successo che meritate. » E mi piace anche ricordare la squisita degnazione i d’un illustre drammaturgo, della cui amicizia mi onoro da anni, Giannino Antona-Traversi: « Leggerò subito con vivo piacere tutti i suoi lavori, di cui amici comuni mi hanno detto un gran bene, e mi sarà caro di poter apprezzare anch’ io il suo forte ingegno. »
S’io evoco tutte queste ricordanze buone, creda pure, Amico illustre, che non sono spinto da un senso di vanagloria; ma è perchè mi pare che un benessere vago mi prenda, dopo lo sconforto dei giorni abituali, ed attraverso la lotta piccola dei mediocri, questo lavacro mi sembra una suprema purificazione.
Poiché la lotta, sorda, nascosta, velata d’ipocrita benignità, non à posa un solo istante, e però una voce amica che giunga di sopra alle basse ire, e alle livide invidie, è come un soffio d’aria pura che giunga, recando balsami di rose, da giardini verdissimi e ignoti. E primi tra questi amici, veramente fervidi, io conto i poeti Biagio Chiara e Federico de Maria, dei quali il primo, volle sostenermi con la sua valida incitazione: « Non desistere; gli ostinati foggiano col tempo, a proprio piacere, anche 1’avvenire degli eventi. Mi piacque assai « A Morte » in cui è animata con maestria la sintesi di un poderoso dramma, e in cui la riproduzione di un episodio della delinquenza napoletana, è fatta con tocchi, rapidi si, ma precisi e forti. » E il secondo m’avvolse nell’onda ampia della sua esuberante espansione di vane entusiasmo: « 'O già letto quasi tutti i tuoi bei bozzetti drammatici: ti dico che essi mi piacciono tutti. La Morte è effettivamente il più possente. Napulitana è sommamente efficace, un vero capolavoro dato che sei un mirabile creatore di caratteri.
Ognuna delle tue cose, insomma, mi à dato almeno un brivido, quel brivido che noi proviamo in cospetto delle vere opere d’arte. Ma ciò che a me è piaciuto di più, nella sua suggestività un po' ideale, nella sua poesia, nella sua, quasi, inconsistenza, è la tua Cenerentola che mi pare semplicemente deliziosa, squisita. »
Avere raccolta tanta benignità di giudizi, intorno alla mia opera semplice, è un assai relativo conforto, se la mia opera è ineluttabilmente ancora costretta all’ombra, dalla quale non è potuta ancora scaturire liberamente al trionfo della luce, alla gloria della primavera. E tutto ciò, perchè non v’à giovane, le cui prime vigilie di pensiero, non debbano essere ostacolate dalla bestiale noncuranza del gran pubblico, dalle invidie losche dei compagni, dall’avversione bieca dei cosi detti maggiori. A ciò si aggiunga la diffidenza degli editori di grido, e la mala fede di molti capicomici.
Parecchi dei miei lavori, sono stati rappresentati da Giovanni Grasso, dal Giovanni Grasso semplice e buono di molti anni fa, il quale mi comunicava, nella sua forma franca, espansiva, sincera, che avea suscitato, in vari teatri, intorno al mio povero nome, dei veri successi impensati. Il Grasso d’oggi, commendatore, cavaliere ufficiale, e decorato della legion d’onore, s’è fatto un pregio di chiedermi altri lavori, e di non darmene più conto alcuno. E fu un vero caso se, scorrendo il Figaro mi fu dato comprendere ch’egli, al Marigny aveva dato la mia Rosa Esposito, sotto un titolo diverso: Rusidda, sotto un diverso nome d’autore e con una lieve modificazione nell’ultima scena. Alle mie vive proteste, egli finse di cadere dalle nuvole, e alfine mi fece scrivere dal suo segretario Cecchini: « Il cav. Grasso mi incarica di dirle che per lui è un vero piacere che la Rusidda sia Sua, e d’ora in avanti sarà messo il suo nome sul manifesto. » Cosa che — inutile dirle — non fece mai, rappresentando Rusidda a Roma e in altre città d’Italia.
Ecco, adunque, una serie di eventi, che finiscono con l’indebolire anche il carattere più forte, con l’offuscare anche la più limpida intelligenza. E’ una oscura, fosca congiura di varii elementi che tolgono la fede, fiaccano l’entusiasmo, annebbiano lo spirito che dispera di attingere la mèta del sogno incessantemente sognato. Anche il poeta della passione, Salvatore di Giacomo, à trovato nei miei drammi, a proposito di Notte, della passione: « Il vostro piccolo dramma è davvero pieno di passione e di tragicità; mi è tanto piaciuto. »
Ma che vale l’ardore, il sentimento, la costanza, se appare inevitabile la vanità d’ogni proprio impeto intellettivo?
Perdoni, illustre Maestro, ed Amico, questo sfogo, che, a lungo contenuto nell’anima dolorante nello sconforto, erompe ora, con un fremito di ribellione. Nulla pare che debba mutarsi ancora, nei cieli del futuro, ed ogni giorno si rivive la stessa vita, solinga vita, tormentata all’inutile sforzo. Ma in fondo all’anima — forse ingenua, forse accesa da una speranza estrema – fiorisce senza posa 1’ardore della creazione, e 1’onta della lotta dei beati non fiacca l’impeto del fervore, ardente sempre per ogni imagine di bellezza eletta.
La speranza non è, infatti, l’ultima a perdersi, nella vita? E perche scrivo ancora, io? E perchè la febbre di creare, anche degli ignoti figli, nell’ombra e nel silenzio, non mi abbandona mai?
E’ un mistero assai profondo, ed anche assai triste, dell’ anima umana.
Perdoni, illustre Maestro ed Amico, l’improvvisazione che à passato i limiti doverosi; ma forse il soffermarsi ad esaminare certi casi — che sono meno sporadici di quanto possa credersi — è di un certo interesse, se non altro per conoscere un lato di più della suprema ironia della vita!
Con l’antica devozione mi creda sempre
Menotti Bianchi
Napoli, 1 Ottobre 1909.
PERSONE
don Rafele
don Vicienzo
donna Carmela
Giulietta
Virginia
ATTO UNICO
Una piccola camera, quasi oscura, a pianterreno, in una via solitaria di Napoli. Una lampada votiva, posta sopra un canterano, a sinistra, dinanzi ad una immagine sacra, diffonde un tenue chiarore, che a quando a quando oscilla. A destra un ampio letto, con una coperta logora. Un tavolo sta in un angolo, con alcune sedie in pessimo stato. Un’aria triste, di miseria, dà a tutte le cose d’ intorno un senso di pena infinita. La bambina è coricata e piange a singulti. La camera è deserta. Nel braciere il fuoco è spento. E’ un vespero triste di Gennaio.
SCENA 1.a
Giulietta sola.
SCENA 2.ª
Carmela. e detta.
Carmela — (spinge l’invetriata e guarda, dalla porta, verso Giulietta, che piange) Giuliè! Si’ tu ca staie chiagnenno? Che t’è succieso?
Giul. — Mammella!...
Carm. — Ah! fosse viva ’a bonanema ’e mamma toia!.. Ma ’a colpa è stata ’e pateto, a spusarse chella furastera!... (poichè la bambina si sostiene il braccio sinistro con la mano destra, le domanda): Che t’ha fatto?
Giul. — M’ha vattuta!
Carm. — E’ senza core chella femmena... Ma che ll’ è fatto?...
Giul. — Niente!
Carm. — E va buò... nun chiagnere... T’ha fatto male?
Giul. — C’ ’o bastone...
Carm. — Ma chi?... Mammella?
Giul. — No mammella... don Federico...
Carni. — (con l’aria di chi à tutto compreso) Aggio capito... E papà nun ce steva?
Giul. — Ah, no! Si nce steva papà, nun me vatteva...
Carm. — E mammella c’ha ditto?
Giul. — M’ ha tirate ’e capille e m’ha ditto: « Nun di’ niente a pateto, si no te dongo ’o riesto... »
Carm. — (con curiosità, accarezzando la fanciulla) Ma pecchè?
Giul. — (vergognosa, portandio le mani agli occhi). No... niente...
Carm. — Io saccio tutte cose; cu me può parlà... Chella, mammella, soffre ’e stu male...
Giul. — Si ’o sapesse papà!
Carm. — Ma c’ hanno fatto
Giul. — (con malizia, a mezza voce) Se so’ vasate...
Carm. — Mbe’? E che nce sta ’e male? (sotto voce): Gesù! Gesù!
SCENA 3.ª
d. Vicienzo e dette.
d. Vic. — (sotto la porta) Aggio ’aspettà cchiù?
Carm. — St’anema ’e Dio chiagneva e io so’ curruta a vedè ch’era succieso... Sa’, è stato don Federico ca l’ha vattuta... (strizzando l'occhio) He capito?
d. Vic. — E chesto si’ bbona a ffa’ a ’ntricarte d’ ’e fatte ’e ll’ate...
Giul. — (si lamenta sottovoce).
Carm. — Iammo, ferniscela! Na pilo ’o faie nu trave...
d. Vic. — (notando che la ragazza si lamenta) Pecchè se lagna?
Carm. — Nun t’ ’aggio ditto? L’hanno vattuta... (si avvicina a Giulietta) Te fa male assaie?
Giul. — (accenna col capo di sì, e mostra il braccio) Cca.
Carm. — (guardando) Che ’nfame scellarato! Ll’ha fatto na mulignana!
d. Vic. — Miettece nu poco d’acqua... (prende dal canterano un fiaschetto di vetro pieno d’acqua) Addò sta nu poco ’e pezza?
Carm. — (girando gli occhi attorno) E chi t’ ’o ’ddà Cca nun nce sta manco ’o ppittato!
d. Vic. — (cava dalla saccoccia il fazzoletto e lo bagna) Ecco fatto! (fasciandole il braccio) Mo nun sentarraie cchiù dulore!
Carm. — (a Giulietta) Nun ’o perdere ’o fazzuletto, si no se spara ’a duzzina...
d. Vic. — Statte attienta!... Se perde stu muccaturo ’e seta!
Carm. — Comme si’ scemo!
Giul. — (a Carmela) Donna Carmè... nun avite appaura, io nun aggio maie perzo niente...
Carm. — ’O ssaccio... tu si’ na femmenona... (scorgendo suo marito, che pensieroso guarda la ragazza) A che pienze?
d. Vic. — (con un gran sospiro) Penzo ca quanno na povera figlia perde ’a mamma è na gran disgrazia... (s’avvicina al letto) Te siente nu poco meglio?
Giul. — Sì, don Viciè.
d. Vic. — Mo nun he ’a chiagnere cchiù... Repuòsete; e fatte nu bello suonno...
Giul. — Vurria arrepusà, ma nun pozzo...
d. Vic. — E pecche?
Giul. — ’A tosse...
Carm. — Chesta è stata tutta l’acqua ch’à pigliata... (a suo marito) ’O pate apprimma se purtava appriesso ’a mugliera, ’a rumana, p’ ’a fa girà c’ ’o piattello; ma chella bbona crestiana, annascuso, s’arrubbava sempe quacche soldo, p’ o’ dà... m’he capito? (con significato).
d. Vic. — Aggio capito...
Carm. — Nu iuorno, ca se purtaie ’a guagliona, chesta se n’addunaie, e ’o dicette a ’o pate...
Giul. — (che ha ascoltato) S’ ’e metteva dint’ ’o mantesino...
D. Vic. — Nce vo’ tanto a nduvinà ’a ventura...
Carm. — Da chillo iuorno nun se purtaie cchiù ’a mugliera, e st’anema e Dio accumpagnaie ’o paté, ’e vierno, ’e state, pe gìrà c’ ’o piattiello attuorno...
D. Vic. — (a Giulietta ) E mo pateto sta a ffa’ e guarattelle?
Giul. — Che ora s’è fatta?
D. Vie. — Nce vo poco p’àvummaria!
Giul. — Sta ’o llario ’o Castiello...
D. Vic. — E po’ addò va?
Giul. — Se ritira...
Carm. — Mo ’o vide ’e venì...
Giul. — (tossisce)
D. Vic. — (a sua moglie) Ma che tene?
Carm. — Tene ’a purmunìa!.. (sottovoce)
d. Vic. — Zitto... Sciò llà! (a Giul.) ’O miedeco t’ha vista?...
Giul. — Sì... m’ha dato chella medicina p’ ’a tosse... (indicando la boccettina che sta sul canterano) Io nun ’a voglio... è amara... Carm. — (accarezzandola) Tu te l’haie ’a piglià! Si no, comme staie bbona?
d. Vic. — Ne vuò nu cucchiarino? Iammo... pigliatella...
Giul. — È amara...
Carm. — (prende la bottiglia e versa in un cucchiaio un po’ di quel liquido) Iammo... sùsete...
Giul. — È amara...
d. Vic. — (le mostra un soldo) Iammo! Si t’ ’a piglie, te do nu soldo...
Giul. — (con gioia) M’ ’a piglio... m’’a piglio...
Carm. — (dopo averle dato la medela) Bravo!... Pare na santa...
d. Vic. — (dandole il soldo) E chisto è ’o soldo...
Carm. — (a suo marito) E tu nun vaie a’ suggità?
d. Vic. — Che buò! M’ha fatto tanta mpressione sta guagliona, ca me sento ’o core niro niro... Ma me n’aggia i’ pe fforza... Stasera s’ha da vutà ’o presirente...
Carm. — E si te fanno presirente?
d. Vic. — (ridendo) Eh, me facevano presirente!
Carm. — Pecchè, nun po essere?
d. Vic. — Io me ne vaco... Addio, Giuliè. (Giulietta lo saluta con la mano).
Carm. — Retirate ampresso... Io resto n’ato ppoco pe lle fa cumpagnia.. (don Vicienzo esce, chiudendo dietro sè l’invetriata) S’è fatto scuro... Vulimmo appiccià ’o lume?
Giul. — Ncopp’ ’o cumò nce sta ’a lampa.. (Carmela ravviva la lampada innanzi la Madonna).
Carm. — Tiene appetito?
Giul. — Sì...
Carm. — E che vuò? Di’...
Giul. — Nun pozzo tuccà niente. ’O miedeco nun vo’...(lungo silenzio). Donna Carmè, me vulite cuntà ’o cunto d’ ’auciello grifone?
Carm. — N’ata vota ’o vuò sentere?
Giul. — Sì, sì... me piace ’e sentere.
Carm. — E te staie zitta?
Giul. — (ponendosi la mano al petto) A parola mia! Carm. — (comincia a raccontare, con voce monotona, da cantilena, col ritmo eguale, quale le vecchie sogliono narrare le fiabe) Nce steva na vota nu Re cecato. Stu Re, na notte, se sunnaie ca pe se sanà nce valeva na penna ’e l’auciello grifone ’A matina chiammaie ’e figlie e dicette chello ca s’aveva sunnato, e prumettette ca chi lle purtava sta penna addeventava Re. ’E figlie subbeto s’armaieno e curretteno, pe truvà ’a penna e l’auciello grifone, chi pe na via e chi pe n’ata. Cammina, cammina, doppo tre ghiuorne e tre notte, nun truvaieno a nisciuno ca sapesse di’ addò steva l’auciello... (si ferma, non ricordando la fiaba) Ah! E chi se ricorda cchiù!
Giul. — (con voce dolce riprende la narrazione) ’O cchiù piccerillo d’ ’e frate, ca s’era spierzo ’int’a nu bosco, ncuntraie a nu vicchiariello, e lle dicette: «San Giuseppiello mio, me vuò di’ addò sta l’auciello grifone?» ’O vicchiariello se mettette a ridere e dicette: «Chillo ca vaie truvanno sta ncopp’a chill’albero»; e dicenno chesto scumparette.
Carm. — Ah, si! Haie ragione! (riprende lei la narrazione) ’O piccerillo sagliette ncopp’ a l’albero e tiraie na penna a l’auciello. Mentre se ne turnava ’a casa soia, ncuntraie ’e frate. Chiste, pe mmidia ’e rignà, l’afferraieno, le levaieno ’a penna, l’accedettero e l’atterraieno...
Giul. — Donna Carmè, nun abbreviate!
Carm. — Arrivate che fuieno add’ ’o Re, ’o frate cchiù gruosso dicette: «Chesta è ’a penna!» Nce ’a passaieno tre vote ncopp’ a l’uocchie d’’o pate, ca subbeto nce vedette. Ma ’o Re, nun vedenno ’o figlio cchiù piccerillo, addimannaie addò steva, e ’e figlie rispunnettero subbeto ca nun ’o ssapevano. Allora ’o pate mannaie a tanta gente; ma nisciuno ’o putette truvà. Nu vaccaro, passanno p’ ’a via addò era stato acciso ’o figlio d’ ’o Re, vedette n’uosso c’asceva ’a sottaterra; ’o tiraie, e l’uosso se mette a parlà accussì:
- «Vaccaro mio, vaccà...
- «Tieneme astrinto e nun me lassà.
- «Pe na penna ’auciello grifone,
- «Frateme è stato nu traditore!
(Giulietta, a poco a poco, per lo spavento, si nasconde sotto la coperta) Quanno ’o vaccaro passaie sotto ’a casa d’ o’ Re, l’uosso accuminciaie a parlà n’ata vota. ’O Re, ca ’o vedette, vulette sentì che diceva; pigliaie l’uosso mmano, e chillo se mette tte a parlà accussì: (con voce cavernosa)
- «Papà mio, papà...
- «Tieneme astrinto e nun me lassà.
- «Pe na penna ’auciello grifone,
- «Frateme ’e stato nu traditore...
(Giulietta è scomparsa interamente sotto a coperta. Carmela se ne avvede, solleva la coperta e resta a guardarla lungamente) Povera figlia! S’è addurmuta!
(Sotto la porta appare la matrigna di Giulietta).
SCENA 4.ª
Virginia e dette.
Virg. — (entrando, vede Carmela) Ve saluto, sora Carmela: che fate? Spregate er tempo co ’sta sgrinfia? Me sembra ’n ghiro! Se dorme la settimana santa!
Carm. — Che dicite! Sta povera figlia tene na freve e cavallo!
Virg. — La possino acciacca! ’Un crepa mai! L’avrebbe dovuto capì prima...
Carm. — S’è addurmuta... Sta propio brutto...
Virg. — So’ tutte imposture! Volete vede’ come s’arza? Quattro papaveri sur grugno e zompa dar letto!
Carm. — (difendendo la ragazza) Donna Virgì... embè? Chesto ca vuie facite nun è bello! Se vede propio ca nun le site mamma!
Virg. — (risentita) Sora Carmela, impicciatevi de li fattacci vostri...
Carm. — (con calmo) ’O ssaccio...
Virg. — Non voio legge... La padrona de casa so’ io...
Carm. — E chi ve dà tuorto?... Ma, vedite, chesta piccerella io ’a voglio bbene... Canuscevo ’a mamma io...
Virg. — Embè? Che me ne mporta?
Carm. — Ve pregavo... nun ’a maltrattate quanno nce sto’ io...
Virg. — (scoppia a ridere) Non me fate ride’!
Carm. — (scattando) Tu ’e qua’ paese si’? Cca, a Napule, nun ausammo ’e fa tanta chiacchiere...
Virg. — E’ meio che ve n’annate; se no, pe li mortacci vostri...!
Carm. — Sa che te dico?... Nun annummenà ’e muorte mieie, ca te faccio fa ’o strascino pe quanta e longa ’a via!
Virg. — A chi dici, a me!
Carm. — Si’ a te... a te!
Giul. — (si sveglia, siede in mezzo al letto, e come sognando dice) Nun ’o ffaccio cchiù!... Nun ’o ffaccio cchiù!
Carm. — (avvicinandosi alla ragazza) L’ha appaurata! (accarezzandola) Nun avè appaura... nce sto’ io cca...
Giul. — Nun me lassate... Chillo... don Federico...
Virg. — (le fa cenno di tacere).
Carm. — T’ ha vattuta? (Giulia guarda Virginia) Nun avè paura!.. Di’... (appare sotto la porta il padre).
Giul. — Papà!... papà!...
SCENA 5.a
Don Rafele e dette.
d. Raf. — (si ferma sotto l’arco della porta. Ha sul dorso il teatrino e nelle mani il sacco coi pupi. Guarda sua moglie e donna Carmela, come per chiedere cosa sia. avvenuto. Depone la baracca e i pupi, e si avvicina al letto della figlia) Ch’ è succieso? Tiene l’uocchie appaurate..
Giul. — Mammà...
Raf. — (a sua moglie) Ma che te si’ miso ncapo d’acciderla a sta criatura?
Virg. — Ti rode quarche cosa?
Raf. — (alla figlia) Di, ch’è succieso? Che t’ha fatto?(Giulietta guarda la matrigna con occhio pauroso). Guarda a me... Di’ che t’ha fatto?.. Nun avè paura...
Giul. — (con un fil di voce): Niente!
Raf. — (a donna Carmela): Donna Carmè... parlate vuie... ch’è succieso?
Carm. — E io che ve pozzo di’?... So’ venuta pe vedè comme steva ’a piccerella, e l’aggio truvata chiagnenno, sola sola...
Raf. — (sua moglie): Sola?.. E tu haie avuto ’o curaggio ’e l’abbandunà? Addò si’ ghiuta? Ma tu a chi ’ntienne ’e fa passa nu guaio?... No!... No!... ’A vi' st’anema ’e Dio? lo campo sulo p’essa!... E tu l’he vattuta!.. Tu?
Giul. — (protestando): No... nun ò stata essa...
Raf. — (con premura: a sua figlia): E chi è stato?.. Di’! Parla!
Carm. — Che ghiate penzanno?... Chi puteva essere?
Raf. — (afferrando per il braccio sua moglie, le chiede): Isso l’ha vattuta?! E tu, nfame, l’haie fatto trasi cca? Dint’a’ casa mia?! Cca... addò sta figliema? Schifosa! Di’... parla! (si schiaffeggia per la vergogna).
Carm. — Don Rafè... che facite!
Giul. — Papà!.. papà!...
Virg. — Saie che te dico? Me so’ seccata...
Raf. — (scattando): Iesce!.. Iesce d’ ’a casa mia! Iesce!
Virg. — Si, si; mo me ne vado... Tanto co te che ce guadambio? M’ ha fatto sempe morì de fame!
Raf. — Va... va... add’ ’o nnammurato tuio! Chillo è l'ommo ca fa pe te! (si avvicina alla figlia e le chiede): Chi è venuto cca? (Giulia lo guarda e tace). E’ venuto don Federico? (Giulia afferma con la testa—a sua moglie) E staie ancora cca?.. (a Giulia): E t’ha vattuta?.. (Giulia afferma con la testa). Nfame! nfame! (si slancia contro la mogle)
Giu]. — (con spavento): Papà... papà mio!..
Carm. — (lo trattiene) Lle vulite fa’ piglià na vermenara?
Raf. — (a sua moglie, indicandole la porta) Iesce!.. iesce!..
Virg. — (esce, guardando con disprezzo il marito).
Raf. — Giuliè... figlia mia! (scoppia in pianto, abbracciando la figlia, e cade sulla sedia).
Carm. — Meno male! Se n’è ghiuta!.. ’On Rafè, ringraziatene a Dio! Chella chi sa qua’ iuorno ve faceva passà nu guaio... Ma chella ha fatto pe’ fa’ vedè...(avvicinasi con premura) Iammo... don Rafè... ’o diavolo nun è brutto comme se pitta... Se sape: so’ chiacchiere ca passano...
Raf. — Nun mettarrà maie cchiù ’o pede dint’ a’ casa mia... Maie, maie cchiù! E’ pe st’anema ’e Dio ca me dispero... Chi l’assistarrà? Chi lle farrà da mamma? Vuie ’o ssapite quant’aggio ’a faticà pe m'abbuscà nu tuozzo ’e pane...
Carm. — E ch’è fenuto ’o munno? Simmo o nun simmo napulitane?
Raf. — Grazie; vuie avite tenuto sempe 'o buon core, e pure ’o marito vuosto...
Carm. — Ah! Vicienzo, sì, è overo, è stato sempe nu buon ommo... E pure tene ’e vizie suoie... (Giulietta tossisce). Giuliè, iammo; pigliete ’a medicina... (va a prendere un cucchiaio di medela).
Raf. — Te siente male?
Carm.. — Ecco cca! (le dà la medicina): Brava..., brava Giulietta...
Raf. — Don Federico è stato cca?
Giul. — Sì.
Raf. — Nzieme cu mam... cu chella femmena?
Giul. — No... mam... steva cca... Po’ è venuto don Federico... Rat. — E t’ha vattuta?
Giul. — Si... c’ ’o frustino...
Raf. — (stringendo i pugni): Nfame!
Giul. — (mostrando il braccio destro). Cca... m’ha fatto male!
Raf. — (a donna Carmela): D. Carmè... nu minuto... vaco e vengo... (fa per prendere il cappello).
Carm. — Site pazzo! Cu chi ve vulite mettere?
Giul. — (spaventata, scende dal letto e gli abbraccia le gambe) No... papà... no... papà!..
Raf. — (la prende sulle ginocchia): Nun te mettere appaura...
Giul. — Voglio sta’ ’nzino a te!
Carm. — Nun facimmo capricce...
Raf. — (a donna Carmela): Scusate, dateme ’a cuperta! (Carmela esegue, ed avvolge le gambe della ragazza): E mo che vuò fa?
Giul. — Voglio sta cca... abbracciata cu tte... (l’abbraccia) Papà mio!..
Raf. — Ma tu pigliarraie friddo...
Giul. — No, vicino a te sto’ meglio, nun sento friddo.
Carm. — (si asciuga una lagrima): Viato a vuie ca tenite na figlia... Io sta gioia nun l’aggio maie avuta... Dio m’ha vuluto fa scuntà ’e peccate mieie...
Raf. — È overo! ’E figlie so’ care, ma quanno nun ce manca niente... E a me me manca tutto!..
Carm. — Dio vede e pruvvede.
Raf. — È giusto! Na vota io ero artista ’e teatro e chello che m’abbuscavo spennevo... Nuie simmo fatte accussì... tenimmo ’e mmane spertusate... Chille erano ati tiempe... M’aviveve ’a senti dint’ ’e «Due Sergenti», ’onna Carmè! Fuie ’o destino ca me facette ’ncuntrà cu chella femmena. Ero vidovo, tenevo sta piccerella, e m’ ’a spusaie. Da chillo iuorno nun avette cchiù pace... tutto iette a rotta ’e cuollo... ’A cumpagnia se sciugliette, io perdette ’a voce, cadette malato, nun putette cchiù recità... e pe vivere, mo... (indica il teatrino dei pupi) ecco chello ca me tocca a ffa’... ’o pupante!
Giul. — (gli asciuga una lagrima): Papà... pecchè chiagne?... Nun nce sto’ io pe tte?
Raf. — Sì, è overo; ma te vularria vedè allegra, cuntenta, e no’ malatella accussì...
Giul. — Aggia sta sempe malata?
Raf. — No!.. Tu t’he ’a sanà!
Giul. — E me purtarraie sempe appriesso a te?
Raf. — Sempe... sempe... (la bacia).
Giul. — Papà, me vuò mettere ’a vesta ianca? chella ca me mettette quanno me facette ’a cummenione? Te ricuorde?
Raf. — E comme t’è venuto stu penziero?
Giul. — ’A vi’: sta là, ’int’ ’o cumò!
Raf. — Che capriccio è chisto, Giuliè?
Giul. — Sì, papà; cuntenteme; te voglio tanto bene! (l’accarezza): Si me faie cuntenta, te do nu vasillo...
Raf. — (a donna Carmela) ’A sentite? Me pare na vicchiarella!
Carm. — (Giulietta, dopo essersi avvicinata al comò). Addò sta, cca?.. Int’a stu teraturo?
Giul. — No, llà, a ll’urdemo teraturo! Sta arravugliata ’int’ a nu panno russo.
Raf. — Ma che vuò fa’?
Giul. — M’ ’a voglio mettere... E... si moro?
Raf. — Nun ’o ddi’! (turandole la bocca): E me lassarrisse accussí?! Sulo sulo?
Carm. — E che so’ sti discurse? Iammo, mo te vesto io! (la prende in braccio, la porta sul letto e la veste).
Raf. — Nun tengo parole pe ve ringrazià...
Carm. — (a Giulietta): Quanno po’ starraie bona, te ne ne venarraie pe sempe cu me!
Giul. — E papà?
Carm. — Papà ha da fa’ ’e fatte suoie... Quanno po’ vene, ’a sera, allora te starraie cu isso...
Giul. — E nun ’o pozzo accumpagnà?..
Carm. — No!.. Tu starraie sempe cu me! Nce vuò sta? Sì? Rispunne...
Giul. — E papà?
Raf. — Papà nun te lassarà cchiù... Starrà sempe vicino a te... Si’ cuntenta?
Giul. — (batte le mani per la gioia): Ah! sì... sì!..
Carm. — È fatto!
Giul. — ’E scarpe?
Carm. — Pure ’e scarpe? Addò stanno?
Giul. — ’Int’ ’o cummò... (Rafele le prende e le dà a Carmela).
Carm. — Dimme na cosa, mo ca te si’ vestuta vulisse ascì?
Giul. — No... me l’aggio vuluto mettere... che ssaccio... (Rafele guarda donna Carmela col gesto disperato di chi sa che il destino non ha più rimedio).
Carm. — (sottovoce a Rafele): E che so’ sti lacreme?.. Curaggio!.. Nun ’a vedite comme sta allegra?
Raf. — Ogge sta peggio! Nun vedite c’ uocchie tene?
Carm. — ’E piccerelle so’ fatte accussì... Mo ’e vedite abbattute, malate... a n’atu poco zompano e rideno... (a Giulietta): E’ overo ca te siente meglio? (Giulietta con la testa afferma e si avvicina al padre) Avite visto? Me date ’o permesso, don Rafè? Vaco a priparà nu poco ’e cena a Vicienzo, e torno subbeto...
Raf. — Facite ’affare vuoste...
Carm. — ( fa per uscire, poi ritorna ) E vuie, ’on Rafè, avite mangiato? Nu muorzo ’e cchiù, nu muorzo ’e meno, pe nuie fa ’o stesso... senza cerimmonie...
Raf. — Ve ringrazio...
Carm. — Ma che so’ sti ringraziamente?
Raf. — No, grazie... veramente... m’ aggio suppuntato ’o stommaco...
Carm. — Allora cchiù a tarde, quanno vene Vicienzo, trasite nu mumento addu nuie... v’aspettammo...
Raf. — Si... cchiù tarde... grazie!
Giul. — (con gioia): I’ pure...
Raf. — Tu mo t’he ’a cuccà...
Giul. — Voglio veni pur io...
Carm. — E va buono... nun piccïà... (esce).
Raf. — Comme te sta bella sta veste!... T’ ’a vuò levà?
Giul. — A n’atu ppoco... Dint’ ’o cumò nce sta pure a nocca celeste p’ ’e capille... (fruga nel tiretto, prende un velo bianco e lo mostra al padre) Papà, guarda: te ricuorde? M’ ’o purtaste quanno me facette ’a primma cummenione... (Il padre guarda con dolore la figlia) Mo ’o metto cca, ’int’ ’a sta scatola, accussì nun se sciupa... (seguita a cercare) Ah! ’A vi’ cca! (mostra il nastro cilestrino e lo lega tra i capelli) Me sta buono?
Raf. — Giuliè... iammo... cuccàmmece...
Giul. — (ha un forte colpo di tosse)- N’atu ppoco...
Raf. — He visto?
Giul. — Io me sento meglio! (ha come un capogiro).
Raf. — (sostenendola) He visto? Tu nun te mantiene all’erta... Iammo, famme cuntento...
Giul. — Sì... papà..., è overo... m’avota ’a capa...
Raf. — Cùcchete (sostenendola, la porta vicino al letto).
Giul. — Ma ’a veste nun m’ ’a levo...
Raf. — Comme vuò tu. (La fa sedere sul letto, accomodandole i cuscini alle spalle). Staie bona accussì?
Giul. — Papà, me vuò fa’ nu piacere?
Raf. — Di’... che vuò?
Giul. — Ma tu me dice ca si?
Raf. — Eh sì... te dico ca sì...
Giul. — Me vuò fa’ sentere l’opera d ’o diavolo cu Pulicenella?
Raf. — Giuliè, che vaie penzanno!...
Giul. — (con voce di pianto) Sì, papà... me l’haie prummiso...
Raf. — Giuliè, nun me fido... Tu saie c’ aggio faticato tutt’ ’a iurnata...
Giul. — Chi sa’ si ’a pozzo sèntere... n’ ata vota...
Raf. — Te si’ dispiaciuta? (Giulietta non risponde) Che mme puorte ’o musso? E te voglio fa’ cuntenta! Ma sulo l’opera d’ ’o diavolo cu Pulicenelia?
Giul. — Si... si... bravo papà!...
Raf. — Tu nun te movere ‘a lloco... Miettete ’a cuperta ncopp’ ’e ggamme... (le mette la coperta sulle gambe, poi va a sciogliere il sacco dei fantocci, si mette il grembiule a sacco, che li contiene; e, prendendo nella mano destra Pulcinella e nella sinistra Colombina, si prepara alla recita).
Giul. — Papà, nun abbrevià... Fammella senti tutta quanta...
Raf. — E va buono! (entra nel teatrino e con voce nasale, chioccia, comincia la farsa «Pulcinella e il diavolo»).
LA RAPPRESENTAZIONE
SCENA 1.ª
Pulcinella e Colombina.
Pulc. — (picchia alla porta di Colombina e la chiama) Culumbì!... Culumbí!... Culumbí!... (picchia di nuovo) Neh’ tu nce siente?
Colomb. — (s’affaccia al balcone) Si’ tu, Pulecenè?
Pulc. — Scinne: nun ’o vvide ca sta chiuvenno?
Colomb. — Zitto, ca nce sta ’o patrone!
Pulc. — E scinne zitto zitto...
Colomb. — Mo scengo... (scende e fa segno a Pulcinella di avvicinarsi) Si’ sempe nu scemone!
Pulc. — (abbracciandola) Sciasciona mia, viene ’int’ ’e braccie meie!
Colomb. — Tu si’ tutto d’ ’o mio!
Pulc. -— Chello ch’ è tuo è mio e chello eh’ é mio è tutto d’ ’o mio!
Colomb. — Me vuò bene?
Pulc. — Io moro e spanteco pe tte... St’uocchie tuoie m’hanno apierto na furnace dint’ ’o core. Io nun dormo cchiù, ’a notte. Me sceto, e penzo a tte! Nun arreposo, nun trovo cchiù arricietto... Me sento ’e viscere arrevutà... ’O core fa tic-tac. Io so’ nu Vesuvio!.. (abbraccia Colombina e la bacia).
SCENA 2.ª
detti e don Anselmo Tartaglia.
d. Ans. — Brrrè... brè... brè...
Pulc. — (come se suonasse il tamburo) Brè... brè... brè...
d. Ans. — Brrr.. bravi.. bravi... Seh! Mo v’acconcio io! (rientra in casa e ne esce con un bastone).
Colomb. — (intercede per Pulc.) Signò, chisto è frateme; mo è venuto dall’Acerra...
d. Ans. — Bu.. bu.. bu.. giarda!
Pulc. — Bu, bu, bu!... Ma ch’è ’o ffuoco ’o Carmene?
d. Ans. — Insalata... Insolente... (alza il bastone e cerca di picchiare Pulcinella, ma ad ogni colpo questi abbassa la testa e il colpo fallisce. Giulietta batte le mani).
Pulc. — Ah! ah! So’ muorto!
d. Ant. — Accussi nun ’o farraie cchiù... (Pulc. ad un tratto si alza e afferra il bastone. Qui ha luogo una lotta per la conquista del bastone. Pulcinella riesce vincitore, e giù legnate da orbo) Aiuto! aiuto!...
Giul. — (ride e batte le mani per la gioia).
Pulc. — Teh! teh! N’ata vota te mpare a fla’ ’o malandrino!
d. Ans. — (sotto la pioggia delle bastonate è morto. Pulcinella lo prende fra le mani e lo dondola fuori dal parapettino, come una campana).
Pulc. — Ndà mbò... ndà mbò...
Giul. — (ha un violento colpo di tosse, si porta le mani alla gola, come chi sentesi strozzare, vacilla, reclina il capo) Papà!... Papà mio!...
Raf. — (esce di sotto le tende, gitta a terra i fantocci, si strappa il grembiule, si precipita verso Giulietta e la chiama con voce d’angoscia) Giuliè... Giuliè... figlia... figlia mia!... (la scuote, le solleva la testa, la guarda negli occhi, poi si alza, si guarda attorno, si precipita sul letto e baciando la piccola morta) Morta!... Morta!... (Resta lungamente abbracciato al corpicino della ragazza. A un tratto si alza automaticamente, avvicina un tondo ai piedi del letto, prende la lampada votiva dal canterano e la pone sul tondo. Si avvicina alla morticina e con amorosa pietà le accarezza i capelli, le congiunge le mani, le chiude gli occhi, la bacia. Un sorriso di sfiducia gli sfiora il labbro, dondola il capo e con disprezzo guarda il teatrino, i pupi sparsi per terra, e col piede li spinge lontano. La porta si apre e appare Virginia. D. Raffaele ha un sussulto, guarda la moglie, questa abbassa il capo; poi guarda il cadaverino, indietreggia, sparisce nella via. Don Raffaele fruga nel tiretto del canterano, prende il velo e come un automa copre il corpo della figlia. Cade in ginocchio dinanzi al letto, ed erompe in pianto, abbandonando il capo sul materasso).
Cala la tela.
Napoli, 16-24 luglio 1909.