Pulcinella duellista notturno
Pulcinella
DUELLISTA NOTTURNO
Brillantissima Farsa in un atto
(tutta da ridere)
PERSONAGGI
Don Giovanni
Don Alfonso ― padre di
Eleonora
Don Lopez
Colombina
Pulcinella
La scena è in Napoli
NAPOLI
Tommaso Pironti, editore
Piazza Cavour, 70
1909
ATTO UNICO
SCENA I.
Notte, Strada con casa
Don Giovanni, poi Pulcinella prima dentro e poi fuori.
Gio. Sieguimi, Pulcinella!
Pul. (di dentro) Mo ca non ce veco.
Gio. Vieni alla voce.
Pul. Io non beco a te comme aggio da vedè la voce (inciampa e cade) Noce de lo cuollo.
Gio. Che fu ?
Pul. (fuori) Ah si Patrone mio.
Gio. Che ti accade ?
Pul. Uh, uh, mannaggia la Natura.
Gio. Perchè ti lagni della natura.
Pul. E mme lagno a ragione, perchè fa le cose storte.
Gio. Come?
Pul. E sicuro. Dimme na cosa, la natura quant’uocchie nc’ ha date?Gio. Due.
Pul. Addò l’ha puoste?Gio. Sotto la fronte.
Pul. E pecchesto ha fatto le cose storte. Se invece de metterle tutte ’e duje nfronte, nce n’avesse puosto uno nfronte e n’auto mpont’ a lo pede, lo pede vedeva la preta e non me taceva cadè a me poverommo.
Gio. Eh, che dici sciocco. Va Pulcinella per quanto mi è stato detto qui deve star la casa del signor D. Aldolfo Mendozza, va credo che sia quella, bussa, ed avvisagli della mia venuta.
Pul. Io mo all’oscuro addò vaco a trova la casa de sto Fonzo Smerdozzo,
Gio. Va, o ti fracasso le ossa di legnate.
Pul. Vi che mm’è date a me poverommo. (si avvia per bussare)
SCENA II.
Colombina di dentro, poi D. Lopez e detti.
Col. Priesto D. Lopez, jettateve a copp'a bascio, ca si se n’addona lo patrone io so carosata, e buje site acciso.
Lop. (di dentro) Ecco mi butto. (si butta ed esce fuori)
Pul. Mamma mia... Chi è lloco?
Lop. Questi sarà il servo. Sappi caro servo, che tutta questa notte mi son trattenuto nelle stanze di D. Eleonora, e sorpreso dal genitore, mi son dovuto buttare dal balcone !
Pul. E a mme che mme ne mporta.
Lop. Ah questi non é il mio servo. (si parte)
Pul. Si patrò?
Gio. Pulcinella?
Pul. Addò staje?
Gio. Qui.
Pul. (va a tentoni, e mette la mano in bocca a D. Giovanni)
Gio. Eh...
Pul. Oh diavolo! So ghiuto co la mano dint’a na chiaveca.
Gio. Questa è la mia bocca.
Pul. E che saccio, pe l’addore chiaveca mə pareva.
Gio. E cosi?
Pul, Sacce, ca mentre jeva trovanno la casa de lo si Fonzo Smerdozzo, aggio ntiso la voce de na femmena, che ha ditto: Fuje D. Loffa, lassa a D. Pommadora, e ghiettate da copp’a bascio.
Gio. E po.
Pul. E po aggio ntiso no butto abbascio e s’é accostato a me uno e mm’ha ditto. Sappi caro servo, che io tutta questa notte mi sono tratteneggiuto nelle stanze di D. Pommodora, se n’è addonato il suo genitorio, e mi son buttato da un balconio.
Gio. Come! Tutto questo ài inteso?
Pul, Tutto chesto.
Gio. Io sono nelle angustie, ma persuadermi non posso che D. Leonora mi abbia tradito, dopocché le inviai il mio ritratto.
Pul. Ah, lo ritratto che le mannaste?
Gio. Appunto.Pul. Ridete patrò.
Gio. Perché ho da ridere ?
Pul. Quanno tu mme mannaste da lo pittore a piglià lo ritratto, isso mme guardava co n’uocchio viecchio.
Gio. Con occhio bìeco vuoi dire.
Pul. Gnorsì. Po me dicette, se io avesse da pittà n’accìso, a te pittarria, pecchè nne tiene la faccia.
Gio. Come! E non te ne risentisti?
Pul. E perchè mme n’aveva da risentire?
Gio. Perchè disse che avevi la faccia di un ammazzato.
Pul. No scamazzato. N’acciso, chillo bello figliulo che mirannose dint’a l’acqua se nnammoraie d’isso stesso.
Gio. Narciso vuoi dire.
Pul.> Gnorsi.
Gio. E bene?
Pul. E bene, dicette io: pittame quanno è chesto; tanno mme dicette; miettete in Quinto Curzio.
Gio. No, ti avrà detto Tito Livio.
Pul. In Quinto Curzio, accossì, (si mette in posizione)
Gio. In iscurcio vuoi dire?
Pul. Scolurcio, gnorsì.
Gio. E bene.
Pul. Pigliaje nu penniello fino fino.
Gio. Pennello ad occhio?
Pul. Cchiù fino.
Gio. Pennello a miniatura?
Pul. Cchiù fino.
Gio. Ma pennelli più fini di questi non ve ne sono,
Pul. Gnorsì, pigliaje lo penniello de masto Francisco lo Fravecatore, e in doje botte zaffe zaffe mme facette lo ritratto. Io me lo contemplava, vedeva che lo naso mio era chiù profilato de lo tujo, la vocca era cchiù piccerella, la faccia chiù aggraziata, e lo fronte cchiù calluso; pe farte no piacere, tu mme diste la lettera aperta pe metterce lo ritratto dinto, e darla a lo Corriere, io invece de lo tujo nce mettette lo mio.
Gio. Ah scellerato! Ti voglio uccidere... Come! questo facesti? E che avrà detto D. Leonora in vedere il tuo orrido ceffo?
Pul. Avrà ditto che s’è nnammurata de me.
Gio. Ecco l’effetto del cambio del ritratto. Si avrà trovato un altro amante. Giacché tu facesti lo sbaglio, tu voglio che ne porti la pena, perciò in questo momento ti ordine di portarti in casa di D. Alfonso, e siccome ti crederanno D. Giovanni per l’anticipazione del ritratto così dirai che tu sei D. Giovanni d’Alverado, io introdotto in casa fingendomi tuo servo di nome Pulcinella, e vedere se mi è stata fedele.
Pul. Vale a di ca io aggio da fa D. Giovanni, e tu Pulecenella.
Gio. Appunto.
Pul. Io so io patrone, e tu lo servitore?
Gio. Appunto.
Pul. E n’é cosa.
Gio. Perchè!
Pul. Perché si mo da servitore avanzo tre mesate da te quanno pò so patrone, t’aggio da pagare io a te.
Gio. Eh ma questa è una finzione.
Pul. Ma tu po saje servì?
Gio. Sciocco. Chi sa comandare, sa anche servire.
Pul. Ne voglio fa la prova.
Gio. Benissimo.
Pul. Ehi Pulcinella?
Gio. Che vuoi?
Pul. Piezzo d’animale! A lo patrone se dice che vuoi?
Gio. Hai ragione, da capo.
Pul. Pulcinella?
Gio. Illustrissimo.
Pul. E no nce potisse mettere na refola d’eccellenza?
Gio. Ma io non ho l’Eccellenza.
Pul. E io lo boglio, aggia da dà cunto a te?
Gio. Benissimo.
Pul. Pulcinella?
Gio. Eccellenza.
Pul. E pronto il cocchio?
Gio. Eccellenza si.
Pul. Ne, che d’è lo cocchio?
Gio. Lo sterzo bestia.
Pul. A la faccia de mammeta… Ehi!
Gio. Eccellenza.
Pul. Preparatemi il Tè, il Rum, il cioccolato, na caudara de brodo d’allesse, e metteteci dentro un senso di caso cotto.
Gio. Ma questo non si costuma Eccellenza.
Pul. E io lo boglio accustumà aggio da dare cunto a te?
Gio. Come comanda vostra Eccellenza.
Pul. Pulcinella?
Gio. Eccellenza.
Pul. Pulcinella?
Gio. Eccellenza, (si ripetano molte volte con caricatura e viano)
SCENA III.
Camera in casa di D. Alfonso.
Eleonora. Colombina, poi D. Alfonso.
Ele. Pettegola, ti voglio insegnar la creanza (la batte)
Col. Ajuto, Ajuto.
Alf. Cos’è questo fracasso? Appena alzato avete principiato a contrastare.
Col. Sacciate si patrò.
Ele. Sappiate signor padre…
Col. Voglio parlà io.
Ele. Ho da parlar io che sono la Padrona.
Col. So stata vattuta…
Ele. Mi ha offesa…
Alf. Ma figlia mia questo non va bene; state sempre come cani e gatte.
Ele. Ma…
Col. All’ultimo c’aggio mancato io? Che l’aggio ditto che essa s’ha da piglià D. Giovanne, che no lo vole.
Ele. No lo voglio, no.
Col. La sentite?
Alf. Va Colombina nelle tue stanze, rispetta mia figlia e non prenderti più confidenza con lei.
Col. Vaco, (ad Eleonora) O schiatte o criepe a D. Giovanne t’aje da piglià. (via)
Ele. Ma signor padre, voi ce ne fate prender troppo a quella pettegola.
Alf. Ma alla fine poi che ti disse quella infelice, che ti devi sposare D. Giovanni.
Ele. Caro padre, non credo che vogliate sacrificare una figlia che tanto vi adora, io ho detto che D. Giovanni non mi piace, ed io non lo voglio.
Alf. Figlia mia, io non voglio sacrificarti, ma tu devi prima vedere D. Giovanni.
Ele. E che necessità ci è che io lo vegga, se é tanto orrido e deforme.
Alf. Tu come lo sai!
Ele. Dal ritratto.
Alf. Ma questo però stimo che sia stato uno sbaglio del pittore.
Ele. Ciò non può essere, perché i pittori cercano sempre di abbellire, non già deformare i loro ritratti.
Alf. Basta. Io ti prometto, che venendo D. Giovanni e trovandolo deforme come al ritratto, non te lo farò sposare.
Ele. Ora mi parlate da padre amoroso, ed io tutta piena di gratitudine ve ne bacio le mani.
SCENA IV.
Colombina, e detti, indi D. Lopez.
Col. Si patrò, nce sta fora D. Lopez, lo nepote vuosto.
Alf. Digli che ho che fare adesso, e non lo posso ricevere.
Col. Nce l’aggio ditte, e bò trasì a forza.
Ele. Caro padre io mi ritiro.
Alf. Si, va figlia mia.
Ele. Vi bacio le mani. (entra)
Alf. Colombina fa che entri mio nipote.
Lop. Signor Zio, perchè non mi volevate ricevere.
Alf. E quando sapevi che non ti voleva ricevere sei entrato ?
Lop. Perchè ho da parlarvi di premura, (prende la sedia e siede) Sedete.
Alf. Bravo. Sei tu adesso il padrone di casa mia.
Lop. Caro signor Zio, ho bisogno della vostra protezione.
Alf. Tanto quando si ha bisogno, allora si va dai parenti, quando poi non se ne ha bisogno, allora non si curino. Basta son tuo zio, sei figlio di mio fratello, e voglio ajutarti. Dimmi ciò che ti occorre!
Lop. Caro signor zio, sappiate che io in Cremona amoreggiava con D. Anna, sorella dì D. Giovanni d’Alverado, quegli appunto cui ho preinteso volevate dare mia cugina in isposa, e trovandomi a parlar seco una notte sotto le finestre, fui sorpreso da un altro suo fratello, il quale avendomi aggredito, io con un colpo di spada lo stesi muto al suolo.
Alf. Bravo. Ed ora cosa vorresti?
Lop. Ho inteso che i parenti del defunto vogliono fare su di me vendetta, per cui mi vengo a buttare fra le vostre braccia, implorando ajuto, soccorso, protezione
Alf. Non posso negarti, che mi verrebbe il pensiero di abbandonarti ai loro furore, ma perché sei sangue mio non lo fò. Rimani qui in casa mia, che si vedrà alla meglio come rimediare (si sente bussare). Va a veder Colombina chi sia.
Col. Mo vaco (via).
Lop. Caro zio, io tanto ve ne ringrazio, e spero per vostro mezzo...
SCENA V.
Colombina poi D. Giovanni e detti.
Col. Allegrezza si patrona. E’ venuto D. Giovanne.
Alf. Come! D. Giovanni! Si vada ad incontrarlo.
Gio. Riverisco questi signori.
Col. (Che bello giovene).
Alf. Oh riverito D. Giovanni...
Gio. Perdonate. D. Giovanni io non sono, ma bensì Pulcinella il suo servitore.
Alf. E dov’ é il vostro padrone?
Gio. Sta montando le scale.
Alf. Presto. D. Lopez, entra da mia figlia, e fa che qui si porti a ricevere lo sposo...
Lop. Vado (entra).
Alf. Io vado ad incontrarlo o che giorno di felicità è mai questo per me. (via).
Col. (Che bello giovene ch'é sto servitore, se mme volesse, io co tutto lo piacere mme lo spusarria.)
Gio. (Quella giovane mi guarda con molta attenzione). Se è cosi potrei scoprir terreno, circa la condotta di D. Eleonora).
Col. Patrone mio.
Gio. Servo suo.
Col. Vuje site nzurato?
Gio. Maritato, non signore.
Col. Che peccato! no giovene cumm’a buje a non ave mogliera!
Gio. Eh, che ci ho da fare...
Col. Vuie site cammariere ?
Gio. Sissignore.
Col. Io pure so cammariera.
Gio. Me ne consolo. Col. E si vuje mme volarrissive pe mogliera… o maramè! Avite ditto ca me volite!… oh che faccia tosta bène mio! Mme so fatta rossa rossa.
Gio. (Bravo)! Non dubitate buona giovane, che vi prometto appena D. Giovanni avrà sposata la vostra padrona, voi sarete sposa di Pulcinella.
SCENA VI.
Pulcinella D. Alfonso e detti.
Pul. (di dentro). Ehi staffieri, Cocchieri, Palafrenieri, carrafe e bicchieri, e tutte le cose che fenettero ajere.
Alf. Favorite D. Giovanni.
Pul.ad Alf. Voi chi siete, il mozzo di stalla?
Alf. Oh, no… Io sono il padre della sposa.
Pul. Siete una bestia.
Alf. Grazie. E perché?
Pul. Perché entra un cavaliere mio pari, e non gli si fa trovare la tavola preparata.
Alf. Oh, oh. Quando sarà tempo sarete servito.
Pul. E chi è cotesta piccola pipistrella?
Alf. Costei è la fantesca.
Pul. Ah, Francesca se chiamma.
Col. Sò la serva signò.
Pul. E se siete serva, io sono un caprio febbricitante amoroso, che vorrei fare un ircocervo.
Tutti. Ah, ah…
Alf. Pulcinella?
Gio. Signore?
Pul. Gnò?
Alf. Io chiamo il servo, non voi.
Pul. E che saccio. (E tu rispunne sabeto n’auta vota) (a Giovanni).
Alf. Che ha detto il vostro padrone?
Gio. Ha detto che vuol vedere la sposa.
Alf. La sposa: eccola appunto.
SCENA VII.
Eleonora D. Lopez e detti.
Alf. Avanzati cara figlia, ecco lo sposo tuo. Inchinati fagli un complimento.
Ele. Serva sua. (Oh cielo quanto é deforme!)
Pul. Patrona mia. (Oh terra è quant’è bona!)
Alf. Sediamo signori miei. (Siedono tutti D. Lopez siede vicino ad Eleonora, e Pulcinella resta in piedi.)
Pul. Asseggettammoce.
Alf. D. Lopez avanzate una sedia per lo sposo,
Lop. Ecco. (gliela mette all’ultimo).
Pul. (Si patro).Gio. (Che vuoi?)
Pul. (Aje ntiso, chisto è D. Loffa, chille de sta notte)
Gio. (Fingi, e fallo alzare, perchè quello é luogo tuo.)
Pul. (Vuò che tiro mano?)
Gio. (No, usa un mezzo termine.)
Pul. Signore, ditemi una cosa, sapete voi di ballo? (a D. Lopez)
Lop. Che domanda! sicuro.
Pul. E sapete il nuovo valzer ch’è uscito?
Lop. Non saprei.
Pul. Adesso ve lo fo vedere io. Alzatevi. (D. Lopez si alza. Pulcinella lo prende per la mano, lo fa alzare e poi siede al luogo di D. Lopez).
Lop. Ma questo…
Alf. Ah, ah… Via non importa nipote sedete a quella sedia.
Pul. E cosi signori.
Alf. Prima di tutto, ditemi, come vi ha portato il viaggio? Pul. Male.
Alf. E come?
Pul. Certi piccoli assassini si sono intromessi nelle scarpe, e mi hanno stroppeggiate le piante.
Alf. Assassini! Pul. Sissignore.
Alf. Pulcinella.Pul. Gnò.
Gio. Signore?
Alf. Io non chiamo voi, ma il vostro servo.
Gio. Comandate signore?
Alf. Che dice il vostro padrone? assassini?
Gio. Vuol dire, che certi piccoli sassolini si sono intromessi nelle scarpe, e gli hanno danneggiate le piante.
Alf. Oh sassolini, non già assassini.
Gio. Sissignore il mio padrone è lepido.
Pul. Gnorsì, io so lepre e buie site no gatto maimone.
Alf. Ma come non avete viaggiato colla posta.
Pul. Gnorsì, la posta jeva nnante, e nuie appriesso.
Alf. Pulcinella?
Pul. Gnò.
Gio. Signore.
Alf. Che dice il vostro padrone?
Gio. Vuol dire, che per divertirsi e dar quattro passi ha voluto smontare dal legno di sopra, e si é un poco danneggiato.
Ele. (Oh Cielo e quell'orrido ceffo dev’esser mio marito.)
Pul. E così mia signora? (ad Eleonora).
Lop. Voglio domandargli che ne pensa dell’uccisore di suo fratello. D. Giovanni una parola.
Pul. Che buò? Lop. Una parola,
Pul. (va da Lopez). Che t’accorre ?
Pul. Qual Città vi fu patria ?
Pul. (Senza parlare va da D. Giovanni e cosi fa sempre) Ne, chillo vo sapè quanto fu citato pateto?
Gio. (Avrà detto qual Città vi fu patria!) Pul. (Se).
Gio. (Cremona, non lo sai tu bestia.)
Pul. (va da D. Lopez) Tremmone, non lo sai tu bestia. E mi riposo (va a sedere).
Lop. D. Giov. un’altra parola.
Pul. E no mme lo potive dicere tutt’assieme: (va come sopra).
Lop. Avete avuto mai altri fratelli?
Pul. (Avete avuto mai altri fraguenti?
Gio. (Ah! Digli che uno).
Pul. (a D. Lopez.) Ah! Digli che uno. E così signor mio.
Lop. D. Giovanni un’altra parola.
Pul. (alzandosi). Oh, lo ssaje ca mm’aje rotte tre corde, e la quarta poco tene.
Lop. Ditemi che n’è di questo vostro fratello!
Pul. (a D. Giovanni.) Che n’é di questo vostro fraguente.
Gio. (Oh rimembranza funesta! Digli che fu ucciso).
Pul. (a D. Lopez.) Oh na panza de menesta! Dille che fuss’acciso. E mi riposo.
Lop. Nè si è mai saputo chi fu l’uccisor di vostro fratello!
Gio. No, che se D. Giovanni saputo lo avesse, avrebbe compita su di lui la sua vendetta.
Lop. E che c’entri tu vil servo a rispondere?
Gio. Son servo é vero ma fedele ed affezzionato al mio padrone, e non posso vedere oltraggiato il suo onore, nè la sua persona.
Lop. Io non mi degno teco altercare. Ebbene D. Giovanni sappiate che io fui di vostro fratello l’uccisore, ed io l’amante di vostra sorella.
Pul. Tu.Lop. Io!
Pul. E a me che mme ne preme.
Alf. Ah imprudente!
Ele. Caro padre, io mi ritiro (via).
Alf. Andate, e tu nipote…
Lop. Ed ecco che in questa casa vi sfide a duello.
Gio. a Pul (Accetta si, accetta).
Pul (Accetta li muoffe de mammeta).
Alf. E bene, io vi assegnerò la stanza per duellarvi; nipote ritirati, e voi D. Giovanni giacché siete stato sfidato, accettate il duello.
Gio. (c. s.) Accetta, accetta.
Pul. Sissignore, io accetto. (Vuò sta frisco).
Lop. E bene, vado ad armarmi, vi attendo nella stanza terrena.
Pul. Non nce vo auto.
Lop. Addio, D. Giovanni (via con Alfonso)
Pul. Lo cielo te scanza de salute e bene, (per spogliarsi). Si patrò levarne sta castellana da cuollo;
Gio. Come.
Pul. Pigliate D. Giovanne tujo, ca io mme tengo Pulecenella mio. Gio. Che dici?
Pul. E buò che chillo m’accide?
Gio. Ti dirò tre ricordi, acciò possa salvarti. Difenditi per non essere ucciso e portami la risposta.
Pul. E si chille m’affenne, pe no me fa difendere, m’accide per non essere acciso chi te porta la risposta.
Gio. Eh sciocco, credevi tu che volessi compromettere il mio onore colla tua balordaggine. Ecco come devi fare per esser sicuro. Appena verrà D. Lopez tu mostra coraggio poi domandagli come uccise il suo nemico egli dirà certamente all’oscuro; allora fa smorzare i lumi, ritirati, che io mi avanzo, e combatto in vece tua.
Pul. Oh, mo va buono. Ma guè non avisse da veni?
Gio. Oh, non dubitare.
Pul. Mm’avisseve da fà essere acciso a mme poverommo?
Gio. Non v’è timore.
Pul. E ghiammoncenne a nomme de spata ncnorpo.
Gio. Andiamo (viano).
SCENA VIII.
Altra stanza con lumi. D. Alf e D. Lopez indi Pulcinella
Alf. Eccovi nipote la stanza assegnata per il duello. Cimentatevi col vostro avversario, che poi sarà mia cura di fare che il tutto riesca a lieto fine. (via)
Lop. Che ha inteso dire mio zio, che il tutto debba riuscire a lieto fine. Io non capisco... Ma D. Giovanni non viene... Che volesse, oh, sento rumore... Eccolo per l’appunto.
Pul. (si avanza pauroso)
Lop. Avanzatevi D. Giovanni.
Pul. Io non tremmo, è na terzana che mm’è afferrata justo a sto momento.
Lop. Perchè andate guardando attorno timido e sospettoso?
Pul. (Nce volesse mo, e chillo diavolo de lo patrone, non avesse da vení).
Lop. D. Giovanni noi dobbiamo duellarci.
Pul. Già.
Lop. Avetə a dirmi qualche cosa prima di batterci.
Pul. Oh, parecchie cose.
Lop. E sarebbero.
Pul. Nuje mo pecché volitiamo mettere la sanità nosta a questione? Invece de fa lo doviello co le spate, dammoce quatte ponie ncopp’a l’uocchie, e po trasimmoncenne dinto a na taverna, e llà nce facimmo scennere la collera a bascia, co na bona mangiata.
Lop. Io non sò quel che dite, a noi.
Pul. Aspè, comme vaje de pressa. E non buò primma.
Lop. Avete ragione. Ecco il mio petto. (lo scopre) Ci é niente ?
Pul. Gnorsì.
Lop. E che cosa.
Pul. La cammisa no poco sfattulella.
Lop. Lasciatemi vedere il vostro.
Pul. Ecco cca; pozz’allattà quatto criature. (E bì chillo quanno mmalora vene).
Lop. A noi.Pul. A nuje.
Lop. Ah...
Pul. Ponta nterra.
Lop. E perchè?
Pul. Vuò sapè la verità, io si non m’arraggio non pozzo duellà, dimme pecchè nc’appicecammo, ca accossì me nfumo, e t’accido.
Lop. E bene, io uccisi vostro fratello.
Pul. Tanto poteva essere, che isso accedeva a te, ed era lo stesso, ncopp’a chesto non me ce pozzo piglià collera.
Lop. Amoreggiai con vostra sorella.
Pul. E essa non se fosse fatta amoreggià.
Lop. Ma voi non vi sdegnate?
Pul. E che buò sdegnà.
Lop. Dunque non ci batteremo?
Pul. io so fatto accossì, non so tanto facete ad arrangiarme. Dimme quatto mmale parole , che accossì po essere che me nfoco e tira mano. (Vide che aggio da fa pe piglià tiempo, e chillo mpiso no bene).
Lop. E bene voi siete un vile.
Pul. No vile, sissignore.
Lop. Un melenso.
Pul. Sfelenzo e miezo.
Lop. Un codardo!
Pul. Coda de lardo! Tira mano.
Lop. A noi.
Pul. Ponta nterra
Lop. Che fu?
Pul. Tu cumm’è ditte?
Lop. Che siete un codardo.
Pul. Ah, io aveva ntiso coda de lardo va buono.
Lop. Ma D. Giovanni voi non vi alterate mai?
Pul. E comme m’aggio da alterà, si tu dice sempe la verità.
Lop. Non ho più sofferenza. A noi.
Pul. (E bi chillo mariuolo si vene.) Ma tu sai con chi combatti?
Lop. Lo so.
Pulc. Combatte co D. Giuvanne, (gridando)
Lop. Lo so non gridate
Pulc. Tu sai chi è D. Giovanni? (gridando).
Lop. Lo so.
Pulc. Non sai lu valore de D. Giovanni?
SCENA XII.
Colombina prima dentro e poi fuori
Col. (di dentro) Rommore de spate! Mo vengo, mo vengo (D. Giovanni nel sentire Colombina si ritira e fa uscir Pul. a combattere.)
Pul. (Facendo lazzi colla spada.) Ah. ah.
Col. (fuori). Uh vuie che facite?
Lop. Ci stiamo duellando.
Pul. Sto accedenno sta cestunia.
Col. D. Giovà lassateme vedè no poco.
Pul. Vi che auto golio è benuto a chesta Vattenne figlia mia.
Lop. Ritirati Colombina, che D. Giovanni vuol combattere allo scuro.
Col. Embè comme volite vuie. (Si ritira e torna il duello D. Giov. torna come prima, indi Colombina di nuovo da dentro poi fuori.) E n’auta vota mo vengo, mo vengo.
Gio. (Si ritira come sopra).
Lop. Ritirati Colombina.
Col. Oh. Giovà, lassame vede no cartoccio.
Pul. Vattenne.
Col. Na fìnta cavata.
Pul. E non te ne vuò ire a bonora.
Col. Oh, e comme site arraggiuso. Pe na cosa da niente.
Lop. Ritirati Colombina.
Col. Eccome ccà. mo mme ne vaco. (Si ritira tornano di nuovo a duellare).
SCENA ULTIMA.
Alfonso, Colombina con lume Eleonora, e detti.
Alf. E così, e così, signori miei: Che vedo!
Lop. Qual tradimento ?
Alf. Due contro uno.
Gio. No, io solo ho combattuto con D. Lopez.
Alf. D. Giovanni.
Pul. Signuri miei, volite sapè la verità, vuje co chi voliveve combattere? (a D. Lopez.)
Lop. Con D. Giovanni.
Pul. E D. Giuvanne chisto è isso; io so Pulecenella lo criate sujo.
Alf. Come!Eleo. Che sento!
Col. Oh maramè!
Gio. E bene, giacchè il mio servitore mi ha scoverto, sí, sappiatelo pure, io sono D. Giovanni d’Alverado, questi è Pulcinella il mio servitore, da me fatto fìngere la mia persona per ispiare i passi di Eleonora.
Alf. Ah D. Giovanni voi.
Gio. Volete tornare al duello?
Lop. No D. Giovanni, se mi perdonate.
Alf. Si perdonarvi egli deve, l’avervi ucciso un fratello non fu che una disgrazia. D. Giovanni voi sposate mia figlia, D. Lopez darà la mano a vostra sorella.
Gio. Ma come se mia sorella non si trova.
Alf. Ella è in casa mia, ci venne ieri appunto.
Gio. Quando dunque è cosi, non mi resta che domandare all’amabile Eleonora se ella mi vuole.
Eleo. Sì, a voi ero inclinata, non già a quello brutto babbuino del vostro servo.
Pul. Mille grazie.
Col. Ma chisto mo è no trarimento. Vuie m’avite prummiso.
Gio. Io ti promisi che quando D. Giovanni sposava D. Eleonora, tu avresti sposato Pulcinella. D. Giovanni son io, questi é Pulcinella, diamoci dunque le mani.
Col. Ch’aggio da fa, m’arremmedio.
Alf. Via datevi le mani.
Eleo. Eccola caro sposo.
Gio. Ed ecco la mia,
Pul. Stienneme sta granfa.
Col. Teccotella marito mio aggarbato.
Alf. Orsù, un lauto pranzo solennizzerà questi sponsali. Si dia bando alla mestizia, e si gioisca in seno alla pace ed alla più perfetta felicità.
FINE