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Del dialetto napoletano - Ferdinando Galliani (1789)/Della Ortografia del Dialetto Napoletano

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DELLA ORTOGRAFIA DEL DIALETTO NAPOLETANO.


C Redesi generalmente, che il solo pregio della ortografia abbia a consistere in questo, che colle convenute figure, e suoni delle lettere indichi perfettamente il suono della pronunzia delle parole. La qual cosa quantunque in gran parte sia vera, non lascia però d’aver molte, e gravissime eccezioni; perchè non minor cura ha da aver questa scienza, che chiamasi ortografia, di far sì, che mediante le lettere si distingua il meglio che si possa l’origine, la derivazione, il senso delle parole, e si diminuiscano le ambiguità, e gli equivoci: essendo chiaro, che quanto importano più le cose, che non le parole, tanto più deve preferirsi il lasciar comprender bene i sensi ed i pensieri d’uno scrittore da chi lo legge, ancorchè male lo pronunziare, che non importa l’istradarlo a ben pronunziare le voci, e lasciarlo nella perplessità del significato. Quindi è, che avendo tutte le lingue orientali, e principalmente l’Ebraica una imperfettiffima ortografia, come quella, che non scrive veruna vocale, e scrive molte consonanti gutturali, che non si sentono affatto, o si distinguono appena; pure i Masoretici che, tanto si sono occupati sulla scrittura di quella lingua, si sono religiosamente astenuti dal mutare l’antica ortografia, prevedendo, che cambiandola, avrebbero fatta smarrir la traccia delle radicali, e reso con ciò incerto il senso di moltissime parole. Lo stesso si può dire de’ moderni Francesi, e degl’ [p. 30 càgna]Inglesi, i quali avendo infinitamente raddolcita la pronuncia del loro antico asprissimo linguaggio, non han però voluto mutarne, se non le leggiermente, l’ortografia, conoscendo la necessità di conservare mediante l’esistenza in iscritto di lettere apparentemente superflue la tradizione, l’origine, e quindi l’intelligenza delle parole.

Fortunatissimo è stato l’Italiano, che fin dal suo nascere ha avuto una ortografia la più accollante ai vero suono della pronunzia, e quindi l’ha potuta senza bisogno di mutazione conservare. Ma non dobbiam defraudare della giusta lode gli Accademici della Crusca, i quali ben meritevoli d’esser maestri del linguaggio generale sonosi astenuti dal forzar l’ortografia ad esprimere i suoni caricati, le gutturali, le asprezze del idiotismo loro Fiorentino, ed han collantemente sostenuto i soli suoni della lingua generale. Così per esempio il volgo Fiorentino pronunzia la voce egli in modo, che per rendere per appunto il suono dovrebbe scriverlr hegghi, ma non si troverà, che i Signori della Crusca abbian pensato mai a farla scrivere così.

Tutto il contràrio se avvenuto nel nostro dialetto. I primi scrittori di esso il Basile, ed il Cortese lo cominciarono a scrivere con una ortografia barbara, e mostruosa; e quasicchè i pregi del dialetto non fossero la dovizia delle parole proprie, la vaghezza delle immagini, l’energìa delle espressioni, ma consistessero tutti nella caricatura, e nella goffaggine, e durezza di alcune pronunzie, misero in esprimer quelle con lettere tutto il loro studio, come se fosse [p. 31 càgna]un sacro dovere, e una pur bella cosa il farci parer goffi al resto dell’Italia, e dell’Europa. Con quella stomacosa ortografia non venne a conseguirsi l’intento, che gli stranieri, leggendoci potessero subiro pronunziare i suoni come noi, giacchè quello è impossibile; ma ne seguì il contrario effetto di spaventar tutti, e fin gli stessi Napoletani dal leggere lo cose scritte sì fatta ortografia; perché a tutti parve non riconoscere sotto quelle svisate sembianze un dolce dialetto, e un non indegno figlio della favella Italiana, ma un qualche barbaro, e inusitato linguaggio. È cosa conosciutittima esservi anche ora infiniti Napoletani, che non avendovi l’occhio avvezzo, non sanno leggere Lo cunto de li cunte, e i poemi del Cortese, per solo effetto dell’ortografia, in cui sono scritti.

Il male cominciato da costoro in vece di diminuirsi andò crescendo ne’ susseguenti scrittori fino al Fasano, il quale lo portò all’eccesso. Nella sua magnifica edizione del Tasso entrò in un impegno strano di esprimere coll’ortografia tutte anche le più insensibili forze date alle consonanti tutte le elisioni delle vocali, tutti i raddolcimenti, o suoni incerti di sillabe, che l’uomo più grossolano del volgo nostro avrebbe fatti, se fusse slato obbligato a pronunziar que’ suoi versi. Ne risultò un così spaventevole accozzamento di consonanti raddoppiate, di apostrofe, di accenti circonflessi, e di lettere sovrabbondanti, che quali non restò parola, che paresse Italiana. Fu a segno, che resosi quasi non legibile, allorché quattordici anni dopo si ristampò, ne fu mutata l’ortografia, e ridotta a [p. 32 càgna]quella del Cortese. Negli autori, che sono comparsi dopo, taluno, come il Lombardo, ha seguita l’ortografia del Fasano; gli editori delle poesie del Capasso han seguita una ortografia mezzana, ed incerta.

Questa parte adunque a parer nostro merita la maggior riforma, se si vuol rimetter in pregio il nostro dialetto.

Veniamo ad indicarne i principali difetti, e il nostro sentimento su quella ortografia, che converrebbe adottare.

Primieramente nelle voci, che mutano le sillabe Italiane fia, fio, fiu in scia, scio, sciù, venne in sella al Basile, ed al Cortese di scriverle shia, shio, shiu, e quindi scrissero shiato, shiore, shioshiare. Questo accozzamento strano del s al h venne a noi dallo Spagnolismo allor regnante giacchè l’ortografia di quella lingua usa assai l'h, e sempre per indicare il raddolcimento di qualche consonante. Ma il genio dell’ortografia Italiana ripugna a quello; onde è che qualunque Italiano vedrà scritta quella parola shiato, non comprenderà, che egli deve leggerla, come se fosse scritta sciato, col solo avvertimento di pronunziar lo sc con qualche dolcezza. Noi crediamo, degna di abolirsi in tutto, come fecero il Fasano, e il Lombardo, quella maniera strana di scrivere, e ridurla al consueto sc, che benissimo esprime il suono.

II. A quasi tutte le parole il Fasano, imitato dal Lombardo, raddoppia la prima consonante. Il Lombardo per esempio scrive ccà bbedive na ciuccia &c. Llà trovavi no ciuccio, cche cchiammammo &c. Che capriccio strano sia stato [p. 33 càgna]questoa, non si comprende. È vero, che talvolta si pronunzia con qualche forza questa prima consonante: ma oltreachè quello aumento di forza è quasi impercettibile, può dirsi con sincerità, che ed i Toscani, e tutti gl’Italiani l’abbiano anche essi nel pronunziare qualunque voce, che sia preceduta da vocale. Ognuna confesserà sulla testimonianza de’ suoi orecchi, che pronunziando le voci a canto, si proferiscono accanto ed in fatti così si scrivono, allorché il segnacaso si congiunge alla parola. Ma non è venuto in testa ai maestri della nostra ortografia ordinar quello insipido, e sfigurato raddoppiamento di consonanti, e farci scriver a ccanto. Stimiamo, dunque noi doversi in tutto abolire quello barbaro stile.

Lasceremo soltanto raddoppiate le m, o le n, allorché là prima di quelle indica l’apocope d’una intiera sillaba. Alcuni nostri autori si son serviti del l’apostrofe in tal caso, altri d’un accento circonflesso. Ambedue sciocche, e mal imaginate cose, come quelle, che ripugnando allo stile dell’ortografia Italiana in vece di dar chiarezza, danno oscurità, e spavento agli stranieri. L’Italia non conosce gli accenti circonflessi. L’Italia non usa l’apostrofe, fuor che alla fine delle parole, e non mai prima, che comincino. Dunque, per esempio, dovendosi alla voce Napoletana inveperuto (inviperito) per effetto di raddolcimento di pronunzia, elidere in parte la proposizione in, noi stimiamo scriverla mmeperuto, e non già ’meperuto, come scrisse il Basile, nè mmeperuto, come scrisse il Fasano. Similmente scriveremo ' [p. 34 càgna]nnauzato (innalzato), e non già nauzato, nè nnauzato.

Lasceremo le due cc nella fola voce ccà (quà), e le due ss nella sola voce ssì (questi), perchè effettivamente in quelle due voci si pronunzia distintamente forte, e raddoppiata la consonante.

III. È nota la continua, ed arbitraria metastasi del nostro dialetto tralla b, allorché non è susseguita da altra consonante, e la v. Simile in ciò allo Spagnuolo, e al Greco moderno (da qualunque di quindi due linguaggi lo abbia tratto) dice il Napoletano a suo arbitrio, e quasi a capriccio vota e bota, vesta e besta, viene e biene &c. Se vi è qualche regola per saper quando l’abbia ad usarsi nella pronunzia l’una, o l’altra di quelle due lettere, è caso raro, ed è tanto difficile ad insegnarlo, che solo la pratica di molti anni potrebbe istruirne chi lo desiderasse, e ne valesse la pena per un dialetto, che sin ora è nell’abbiezione, e nel disprezzo. Ne abbiam parlato di sopra alla pag. 9., e recatone un esempio tratto dal verbo volere. Ci si condoni recarne un altro qui tratto dalla voce vota, che corrisponde all’italiana volta, o sia vece. Si deve dire una vota, doje vote, quatto vote y cinco vote &c., nè si può dire altrimente, ma sul numero trè si dice ugualmente bene tre bote, e tre vote. Similmente deve dirsi forzosamente chesta vota, e chella vota; ma può dirsi quacche bota, cchiù bote. Chi non confesserà l’impossibilità di dar regqla in questo?

Intanto può ognuno avvedersi; che lo scrivere ora col b, ora col v genera confusione agli [p. 35 càgna]stranieri. Per esempio scrivendo chillo venne, io sò benuto si stenta a riconoscere, che le due voci venne, e benuto appartengono allo stesso verbo venire, quantunque una sia scritta coll'v, l’altra col b.

Noi abbiam creduto dunque, che convenga poco curando questa bizzarria, e delicatezza di pronunzia, stabilir per regola ferma, e inalterabile d’ortografia, che quelle parole, le quali nella loro corrispondente Italiana hanno la lettera v debbano nel nostro dialetto fissamente scriversi anche col v; e per contrario quelle, che hanno la b, scriversi colla b. Così accodando il nostro dialetto all’ortografia Italiana lo renderemo più intelligibile ai poco esperti in esso. Così scriveremo battaglia e non vattaglia, bascio e non vascio, e per contrario scriveremo venire e non già benire, vedere e non già bedere &c. Ciò faremo in turt’i casi, che il pronunziare come b, o come v sia arbitrario, e libero; ma allor quando è forzosa la pronunzia dell’una, o dell’altra ci atterremo alla pronunzia. Così scriveremo varca, e non barca perchè il Napoletano dice soltanto varca, ed ha lasciato ai Toscani il dir barca.

IV. Generalmente in tutti i casi dubj seguiremo l’ortografia, che più s’accoda alla comune Italiana. Conviene, che ogni figlio si faccia pregio di mostrar rispetto, ed attaccamento alla madre comune, e ben lungi dall’innalzar lo stendardo della ribellione, e della diseordia tra ’l Napoletano, e l’Italiano, noi crediamo non potersi far meglio, quanto il cercare di raddolcire il nostro dialetto, d’italianizzarlo quanto più si può, e di renderlo simile a quello, [p. 36 càgna]che i nostri ultimi Re gli Aragonesi non sdegnarono usare nelle loro lettere, e diplomi, e nella legislazione.

Questi sono i nostri pensieri circa l’ortografia, e ne daremo un primo saggio nel Vocabolario, che ora pubblichiamo, nel quale perciò non useremo l’ortografia degli autori, ma questa nostra, e speriam così far praticamente conoscere, e toccar con mano, che senza sensibile alterazione della pronunzia, si rende il dialetto assai più agevole, e chiaro agli stranieri, che lo leggeranno.