si, i quali avendo infinitamente raddolcita la pronuncia del loro antico asprissimo linguaggio, non han però voluto mutarne, se non le leggiermente, l’ortografia, conoscendo la necessità di conservare mediante l’esistenza in iscritto di lettere apparentemente superflue la tradizione, l’origine, e quindi l’intelligenza delle parole.
Fortunatissimo è stato l’Italiano, che fin dal suo nascere ha avuto una ortografia la più accollante ai vero suono della pronunzia, e quindi l’ha potuta senza bisogno di mutazione conservare. Ma non dobbiam defraudare della giusta lode gli Accademici della Crusca, i quali ben meritevoli d’esser maestri del linguaggio generale sonosi astenuti dal forzar l’ortografia ad esprimere i suoni caricati, le gutturali, le asprezze del idiotismo loro Fiorentino, ed han collantemente sostenuto i soli suoni della lingua generale. Così per esempio il volgo Fiorentino pronunzia la voce egli in modo, che per rendere per appunto il suono dovrebbe scriverlr hegghi, ma non si troverà, che i Signori della Crusca abbian pensato mai a farla scrivere così.
Tutto il contràrio se avvenuto nel nostro dialetto. I primi scrittori di esso il Basile, ed il Cortese lo cominciarono a scrivere con una ortografia barbara, e mostruosa; e quasicchè i pregi del dialetto non fossero la dovizia delle parole proprie, la vaghezza delle immagini, l’energìa delle espressioni, ma consistessero tutti nella caricatura, e nella goffaggine, e durezza di alcune pronunzie, misero in esprimer quelle con lettere tutto il loro studio, come se fosse
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