dello stesso anno, ebbe esito ottimo; mentre al povero Pergolesi, che alla rappresentazione della sua Olimpiade sedeva al cembalo, secondo l’uso del tempo, quasi non bastasse la rumorosa e insolente disapprovazione, fu perfino lanciato dal pubblico, in segno di dispregio, un arancio!
Col cuore sanguinante, pazzo, si recò a Napoli e, cercando nei conforti intimi pace alle lotte sostenute, mise mano ad un Salve Regina; e, ultima sua opera scenica, al Flaminio, data nell’autunno del 1735, al Teatro Nuovo, impresario Angelo Carasale.
Ma, pur trionfando questa volta, non valse il largo plauso a lenire il male che inesorabile minava la sua esistenza; per la qual cosa i medici gli consigliarono di portarsi a respirare l’aria salutare di Pozzuoli. Quivi, trovata ospitalità nel convento dei Francescani, scrisse,! per incarico deìl’Arciconfraternila dei Cavalieri, "il divino poema del dolore" come lo chiamò poi Vincenzo Bellini: uno stabat da sostituire a quello di Alessandro Scarlatti, che da molti anni soleva eseguirsi nella loro chiesa. Quando i componenti la Congrega andarono per ritirare il Poema trovarono un’opera d’arte di più, ma un grande compositore di meno.
Giambattista Pergolesi può dirsi a ragione un rinnovatore dell’arte musicale dei suoi tempi: la spogliò delle vecchie forme convenzionali; sublime nella seria, leggiadro, pieno di schietto umorismo nel genere buffo. Per primo compose le Arie con accompagnamento diverso dalla cantilena vocale; stabilì sul violino, del quale era provetto conoscitore, le scale semitonate; unì con differenti motivi due di questi strumenti.
Fra i ritratti che si conservano di lui il più attendibile è quello che si trova nella biblioteca di S. Pietro a Maiella, ed a questa donato dal Florimo. Una caricatura del Ghezzi, contemporaneo, si avvicina molto per somiglianza a questo ritratto. In due soli connotati sembra che discordino tra loro: nella figura della fronte e nell’acconciatura