lando il suo bambino tra noi, se non canta, e non pronunzia, o compone una canzone, o cantilena che siesi, che per lo più essa stessa fa, e versisica, e rima, accozzando parole spesso senza senso, e senza saper quel che si dica: tanto è meccanismo d’istinto in lei il poetare. Lo stesso sa l’artigiano, se si annoia nel lavoro; lo stesso sa il fabbricatore, se batte un lastrico; lo stesso il vetturino, se il pigro palio de’ suoi muli scuotendolo dal sonno, gliene indica, tediosamente la misura. Voga il navicellaio, e absentem cantat amicam multa prolutus vappa nauta. Non vi è festa di contado, dove non chiaminsi improvvisatori, e cantori. Tutto in somma cantò, e poetò, e tutto ancor poeteggia tra noi.
Della passione generale de’ nostri, e della disposizione alla musica che giova ragionare? Ne abbiamo il primato; lo abbiamo da più secoli; lo abbiamo non contrastato, nè lo perderemo, se non se qualche tetro soffio di oltramontana calcolatrice filosofia, e la smania di migliorarci mutandoci, non verrà a turbare la nostra ingenita ilarità, l’espansione libera de’ nostri polmoni, il nostro neghittoso scialare. Siane lontano l’augurio.
Che se a taluno restasse ancor dubbio della singolare, e distinta attitudine del dialetto ad accordarsi alle modulazioni musiche, noi ne appelleremo alla testimonianza di tanti illustri, e primi compolitori ancor viventi, che abbian prodotti. Tutti ed i Piccinni, e i Paesielli, i Sacchini, gli Anfossi, i Guglielmi, i Latilla,
i Monopoli, i Cimarosa contesteranno, che quanto è più musicale l’Italiano, che non
è il