AVVERTENZA SU LA PRONUNZIA E LA SCRITTURA DEL DIALETTO ABRUZZESE
Chi fa, come il nostro Finamore e altri specialisti di studi dialettali, opera filologica, e scrive per i dotti, s'intende che adoperi la scrittura fonetica:[1] ma chi scrive per il pubblico e vuol esser letto dal pubblico, bisogna che si discosti il meno possibile dalla scrittura volgare della lingua, con cui il dialetto ha comuni quasi tutte le radicali e i temi.
Io perciò ho conservato, fin dove ho potuto, le forme etimlogiche, e ho scritto, per es. lu monte lampïave anzichè lu monde lambïave; e quante suone (quanti suoni) e quande suone (allorchè suoni), ecc.
Per la pronunzia bastano al lettore non abruzzese le poche regole seguenti.
Le lettere p, s, t, c.
Comunemente
p, preceduto da m, si pronunzia b, per es. lu campe (il campo) si legge lu cambe, ecc.
s, t, preceduti da n, si pronunziano rispettivamente z e d, per es. la cunsèrve (la conserva) si legge la cunzèrve; lu vènte (il vento) si legge lu vènde; nen sî bbone (non sei buono), si legge nen zî bbone, ecc.
c, preceduto da n, dai piú si pronunzia g, per es. 'ncòlle (addosso) si legge 'ngòlle; 'n cape (in capo), 'n gape; nen cî bbone (non sei buono), nen gî bbone, ecc.
Scriviamo secondo la pronunzia solamente quelle parole che in bocca al popolo hanno subito tali mutamenti da perdere, se riprodotte nella forma etimologica, la loro fisonomia dialettale, per es. lu 'mbèrne (l'inferno); 'mbónne' (infondere: bagnare); 'mbusse (infuso: bagnato); 'm mócche (in bocca); lu cumbètte (il confetto); ecc.
- ↑ Si veda la pregevole opera: |Vocabolario|dell'Uso Abruzzese|compilato da|Gennaro Finamore|Seconda Edizione|Città di Castello|Tipografia dello Stabilimento S. Lapi|1893.
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